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Salvo - Recensione

26/06/2013 | Recensioni |
Salvo - Recensione

Un’opera da sentire e guardare, forte e commovente, un film quasi perfetto, senza sbavature, girato con rara maestria da due registi che d’ora in poi dovremmo inserire nella lista dei (pochi) nuovi veri talenti del nostro cinema, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza.
Se non fosse stato per i due importanti premi vinti a Cannes dove è stato selezionato per la “Semaine de la Critique” (sezione dove l’Italia mancava da nove anni) e dove ha vinto il Grand Prix e il Prix Rèvèlation, il film forse non avrebbe mai trovato un distributore. Abbiamo quindi corso il rischio di non vedere nelle nostre sale Salvo, un’opera che si avvia a diventare con ogni probabilità il più importante esordio cinematografico dell’anno.
La storia si svolge a Palermo dove Salvo è un killer al soldo di un boss mafioso che deve eliminare un uomo. Salvo si introduce nella casa della vittima e compie l’omicidio con la sua solita freddezza, ma non è solo. Nell’appartamento c’è la sorella dell’uomo, Rita, una ragazza cieca che, subito dopo l’esecuzione del fratello, forse per il trauma subito, riacquista la vista. Salvo decide di non ucciderla e la rapisce rinchiudendola in un capannone industriale abbandonato. Col passare dei giorni, tra i due nasce una certa complicità, perché le loro esistenze, ormai, sono legate per sempre.
Un incipit fortissimo, una scena d’azione, inseguimenti, colpi di pistola assordanti, urla. E poi il silenzio, una casa che sembra vuota ma che non lo è: nascosta nella penombra, una ragazza cieca chiusa nel suo mondo, nel suo spazio intimo, nel suo guscio, i suoi occhi vagano persi nel vuoto, le sue espressioni facciali sono incontrollate (straordinaria la prova dell’esordiente Sara Serraiocco). Solo una canzone ad accompagnarla nel buio della sua esistenza, un ritornello ripetuto all’infinito, con precisione maniacale, come una reiterazione continua di giornate sempre uguali, vissute in una prigionia forzata (straordinario il lungo piano sequenza che segue la ragazza nella sua casa). Poi di nuovo colpi, deflagrazioni (esteriori e interiori), un trauma e un miracolo, vero snodo drammatico del film: il miracolo della visione e della libertà insieme. Ed ecco giocarsi una nuova partita in un mondo chiuso, dove vige la regola della libertà pericolosa, dove la presenza di un oppressore è una necessità, dove si vive in un continuo stato d’eccezione, dove violenza e sopraffazione sono leggi non scritte. Ma ora per due persone si apre la possibilità più pericolosa: quella della libertà. Quella di una finestra aperta verso l’esterno ma dove il mare è visibile soltanto come una piccola linea blu al di là di un altro muro.
Un film che inizia come un noir e che via via diventa tante altre cose, un’opera originale, una straordinaria sintesi e fusione di stilemi (pur evitando semplificazioni e stereotipi diffusi) di diversi generi (con influssi che vanno da Jean-Pierre Melville a Takeshi Kitano): la storia di mafia, la storia d’amore, la commedia nera (con la coppia proprietaria della stanza dove alloggia il killer, complice della sua latitanza in un contesto angusto, cupo e grottesco), il western all’italiana (la scena finale del confronto tra il protagonista e il boss mafioso tra gli aspri, desertici e polverosi paesaggi siciliani dalle tinte color ocra).  
Libertà e prigionia, visibile e invisibile, cecità e visione (nei primi minuti di film del killer sono inquadrati solo gli occhi in primissimo piano). Una cecità che viene mostrata nel suo duplice aspetto: quella fisica della ragazza e quella morale del killer di mafia. Entrambi i personaggi sembrano fare un percorso parallelo dall’oscurità alla luce, dalla prigionia a una possibile libertà.
La cosa che più colpisce del film è l’assoluta rilevanza dei rumori. Suoni forti, talvolta quasi stordenti (come quelli degli spari nella sequenza d’apertura), che elevano l’orecchio come parte essenziale e integrante della visione. Occhio e orecchio, visioni e suoni. Con una scelta estetica coraggiosa, i registi non usano una colonna sonora ma solo rumori d’ambiente (motorini che si accendono, colpi, sgommate, urla) e una sola canzone che risuona martellante (la rivalutazione di un pezzo pop dei Modà è un altro colpo da maestri).
Un cinema che vive nel fluire forte delle immagini e dei suoni come dei silenzi, una lezione importante da due indubbi talenti alla ricerca di un linguaggio diverso e di grande impatto. Folgorante.

Elena Bartoni
 

 


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